Se hai paura, mettiti il casco

Di recente, e con recente intendo questi ultimi 4 o 5 anni, mi è capitato di trovarmi a prendere confidenza con un biker; non di quelli con baffo, barba e pin-up disegnate sul bicipite, ma nemmeno di quelli con la tuta imbottita, la protezione per la schiena e gli stivali. 

Lui è un appassionato di Harley Davidson. Un chopperista. Si dice così?

Di quelli che le moto se le personalizza e passa il tempo libero a montare a rimontare i pezzi neanche fosse il Figaro delle due ruote. Lo fa anche per gli amici. 


Va da sé che accompagnarmi a un soggetto del genere, per me che ho paura di andare in bici in discesa o soffro addirittura in altalena, equivale a farmi di una dose ingente di adrenalina e fifa blu in formato liquido, sparata in vena senza indugio alcuno. 

Da piccola, mio zio Fabio, mi portò un’unica volta a fare un giro di circa tre minuti con la sua moto, di quelle da strada dove devi avvinghiarti al pilota come se fossi un koala con l’eucalipto, quando scesi avevo il colorito di Linda Blair ne L’esorcista.

Ero una fuoriclasse già in tenera età; spericolata come non mettere la maglietta della salute in inverno.


E fino a poco tempo fa, condividere un mezzo che sta in equilibrio su due ruote, che raggiunge una discreta velocità, che supera file di auto in colonna e fa il pelo ad autoarticolati imponenti, mi allettava come masticare la ghiaia; ma dovevo contraccambiare la Sua disponibilità a parlare di sentimenti e psicologia, facendo qualcosa per lui a mia volta.

Sono consapevole che il rischio di parlare troppo di temi psicologici fino a notte fonda possa far gonfiare gli ammenicoli in soggetti non predisposti, ma anche sfrecciare fra le strade del Triveneto o su e giù per le colline con la paura di lasciarci le penne ha un che di sfidante, no?


Quindi, visto il lavoro che faccio, l’ho presa come un’occasione per capirci qualcosa in più su di me, sulla vita e sulla velocità. 


Le sensazioni che pervadono il mio corpo quando fungo da zainetto posteriore (nel mio caso vista la stazza, più uno zaino da viaggio per l’altro capo del mondo dotato di tenda e materassino) vanno dalla paura di morire alla più totale disperazione generata dall’assenza di controllo.


Viaggiare come passeggero ha molto a che fare con il concetto di fiducia in una relazione: affidarsi, stare vicini e andare insieme da qualche parte, avere un obiettivo.


Non decidi tu la velocità, i riflessi non sono i tuoi, devi fidarti di chi guida.

Le prime volte ero così rigida che sarei stata affidabile nel puntare verso l’alto come l’ago della bussola punta il nord. Lui girava a destra e io facevo resistenza. Dritta come un fuso. Posizione della montagna da dieci e lode, peccato che sia particolarmente rischioso, in realtà.

Mi ci è voluto un po’ per capire che devi lasciarti andare, evitare di opporti, assecondare le curve e donare il tuo peso alla gravità. 

Seguire il flusso rende tutto più facile per chi guida.


Le prime volte avevo paura di morire. 

Davvero. 

Eravamo in autostrada a 130 km orari diretti verso un raduno di bikers a Lignano e piangevo, pensando al mio cane orfano di madre e costretto a crescere con la nonna.

Mi anticipavo mentalmente gli scenari peggiori come a prepararmi a doverli affrontare da un momento all’altro. 

Come se si potesse prepararsi davvero a morire! 

Come se finire sul parabrezza di un furgone, a far pendant a un Arbre Magique al pino o stritolata fra le lamiere di una o più auto, fosse qualcosa a cui ti puoi preparare.

Ma so bene quanto la mente ci provi, ad avere il controllo sul futuro e ad affannarsi per dare una sbirciatina al fato. 

A volte la paura la devi solo accettare, affrontare e lasciare andare. 

Qualunque cosa accadrà, la gestirai.


Certo, vedere che non sono ancora morta, aiuta ad avere fiducia eh.

Una cosa a cui faccio ancora un po’ fatica ad abituarmi è la sensazione di vuoto che si prova con l’accelerazione e la conseguente reazione di trattenere il respiro, che però fa aumentare la sensazione spiacevole; per cui ho scoperto, in modo del tutto casuale, che espirare, invece che inspirare, durante la fase di acquisizione di velocità aiuta a stare meglio. 

Se stiamo accelerando e mi viene da ritirarmi, mi convinco di voler contribuire ad accelerare, così la paura se ne va, ci metto l’intenzione.

Ancora un volta, si tratta di lasciare andare, avere fiducia. Essere aperti.


Devo dire che ho trovato un pilota che non ci ha mai messo in pericolo, non va mai troppo veloce ed è abbastanza paziente quando affondo le unghie attorno ai suoi fianchi per suggerirgli una velocità inferiore o quando provo a strappargli un capezzolo se proprio non mi ascolta.


E poi, dopo una serie del tutto personale e arbitraria di uscite, frenate e accelerate, ti abitui a quella sensazione di perdita di controllo e adrenalina. 

E cominci a guardarti attorno e a goderti il paesaggio. 

Se guidi tu, auto compresa, devi fare attenzione alla strada, se sei passeggero puoi gustarti la vista, ma se sei in moto, ti gusti il sole, l’aria e i vari ed eventuali insetti che ti si infilano tra i denti.


Il mio senso del controllo riceve lo sfratto esecutivo ogni volta salgo in moto e rientra di straforo ogni volta che scendo. 

Il bisogno di parlare e condividere ed esprimere tutto quello che mi passa per la mente devo lasciarlo a casa.

E il pilota ne è molto, molto, molto, molto contento. 

Tanto sa che alla prima sosta lo terrò aggiornato di tutto quello che ho pensato e che non vedevo l’ora di dirgli. Hehe.

Posso stare fra me e me e pensare, o meditare o semplicemente sentire la strada.

A volte sento anche indistintamente il nervo sciatico infiammato, ma non abbiamo ancora capito se è perché metto il peso più sul mio cuscinetto sinistro (scrivere chiappa sinistra mi pareva poco fine).


C’è una buona dose di controllo che possiamo avere nella vita, non trovo sensato andarsele a cercare le rogne, diciamo. 

Ma infine, questa vita va affrontata anche un po’ così, col vento fra i capelli.. ah no, mannaggia, il casco!






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